A proposito di The Big Bang Theory, la serie prodigiosamente spiritosa di cui si aspetta la decima stagione (ora in visione negli Stati Uniti), sarebbe interessante sapere quanto successo abbia in Italia. I ratings dei tantissimi titoli che appaiono su Sky purtroppo non vengono pubblicati, e in questo caso è un vero peccato, perché il successo di un programma di questo livello sarebbe un rincuorante segno di civiltà. Si tratta infatti di uno di quei “testi” che richiedono molta attenzione e a volte il superamento di alcune difficoltà ma in cambio restituiscono il piacere di vedere all’opera la grande intelligenza, il vero talento. In altre parole The Big Bang Theory (BBT) si è rivelato negli anni un inatteso capolavoro. Inatteso lo dico volutamente: alle serie comiche in genere non si presta molta attenzione, almeno da parte del pubblico cosiddetto serio, inclusi molti addetti ai lavori. Forse siamo ancora attaccati al vecchio vizio di pensare che il comico sia un’arte minore, chissà. Sta di fatto che fa molto più notizia e sensazione la serie drammatica.
Cercar di descrivere BBT a chi non l’ha mai visto sarebbe come voler parlare di una foresta a chi non ha mai visto un albero – un esercizio ridicolo e soprattutto inutile, in quanto Wikipedia in questo senso è più che esauriente: volendo, troverete un’accuratissima relazione sui personaggi, i temi, le situazioni, gli interpreti ecc. ecc. Insieme all’attore Jim Parsons (di cui ho scritto qui), le personalità che mi colpiscono di più sono i due creatori-autori-produttori, Bill Prady e Chuck Lorre. Quest’ultimo in particolare, visto che ha una carriera costellata di sitcom di grande successo (Cybill, con la meravigliosa Cybill Shepherd, Dharma and Greg, Due uomini e mezzo, attualmente Mom). Creatore vulcanico, anche compositore, Lorre, mai avaro nello spendere i suoi talenti, mette a suggello di ogni puntata di BBT le cosiddétte Vanity Cards, che in trasmissione durano un attimo ma sono dei corposi articoli sui temi più vari. La Warner Bros. ogni tanto glieli censura, così Lorre ha preso a pubblicarli, prima in un bel librone da tavolo, poi regolarmente sul suo sito: nella doppia versione, censurata e non.
È una lezione anche l’accuratezza dell’insieme produttivo. BBT viene registrata dal vivo (dunque risate vere), e a ogni puntata è presente il consulente scientifico, David Saltzberg, professore di fisica alla UCLA, per correggere eventuali errori degli attori quando mitragliano certe battute a base di astrusissime formule (quasi sempre a far da tramite con lo spettatore “ignorante” resta a bocca aperta anche l’adorabile vicina di casa Penny, l’attrice Kaley Cuomo). Il vero lavoro di Saltzberg però viene prima: i due autori sanno di scienza, fisica in particolare, ma è Saltzberg ad assicurare l’autenticità delle grandi equazioni che il protagonista Sheldon Cooper squaderna sulla lavagna di casa. Nel cast, probabilmente non a caso, c’è anche un’altra scienziata, la neurologa Mayim Bialik, che fa Amy, l’eterna fidanzata dell’ipertimido Sheldon.
Intanto ha fatto irruzione sullo schermo di casa una nuovissima serie drammatica (eccome: cupissima) della HBO: Westworld, basata sul film omonimo scritto e diretto dal romanziere Michael Crichton nel 1973. Del film, che ricordo mediocre proprio per mancanza di regia, è rimasta e viene sviluppata nella serie la feconda bellissima idea di un villaggio western che è in realtà un parco divertimenti popolato di androidi dove ai visitatori, i ricchi clienti, “tutto è concesso”. L’azione si svolge su diversi livelli e molti personaggi e temi si intrecciano.
Costituito da una città del vecchio West meticolosamente articolata al centro di un territorio vastissimo (inclusi il Grand Canyon e dintorni) il mondo-parco, il Westworld, è costantemente sorvegliato dall’alto. Al livello superiore stanno l’invisibile Consiglio della corporation, il Creatore di Westworld (Anthony Hopkins), i servizi di sicurezza e controllo (con le rivalità d’uso), i tecnici-scienziati addetti al buon funzionamento degli androidi, detti Attrazioni, e delle interazioni di questi con i visitatori: il comportamento degli androidi dovrebbe rimanere all’interno di una limitata routine prevista punto per punto – cioè scritta da sceneggiatori (livello intermedio) fra i compiti dei quali c’è l’eliminazione delle Attrazioni di scarsa presa sul pubblico. Alcuni degli androidi (livello inferiore) hanno invece comportamenti devianti, dunque pericolosi. È la memoria, che arriva per barlumi via via più tragici, a suscitare in loro un’offuscata coscienza, istinti e pulsioni che li fanno allontanare dai loro ruoli nella storia diventando una minaccia per i visitatori e per l’ordine e il rendimento della potente azienda chiamata Westworld. Mentre alcuni clienti maschi arrivano in vacanza a Westworld (una vacanza da 40.000 dollari al giorno) per sfogare gli istinti più disumani e bassi, in primis la violenza, al centro dell’inverso processo di umanizzazione degli androidi sono non casualmente due figure femminili. Domina su tutto l’ambiguità: vediamo il ripetersi di alcune situazioni, ma con variazioni anche radicali; e a un certo momento non sapremo più se quello che accade nella città western è recitazione del copione o improvvisazione. Così le situazioni più consuete acquistano uno spessore inedito, una forza sconvolgente. Ogni momento diventa inquietante, anche per il sospetto che qualcuno dei personaggi che riteniamo interamente umani possa rivelarsi un androide, magari sofisticatissimo ma comandato dall’alto. Robert Ford (Hopkins), fondatore e direttore creativo di Westworld, dice (cito a memoria) al suo più stretto collaboratore: “Se fossimo nel Trecento, ai tempi di Guglielmo di Occam, ci avrebbero già mandati al rogo: perché noi creiamo la vita e la distruggiamo – siamo Dio” . (Va da sé che Anthony Hopkins ha una tale autorità e statura che invece di battute così efficaci potrebbe recitare l’elenco del telefono di Manchester e incantarci comunque).
Ma mentre a casa si veniva trascinati in questa fantastica avventura multi-strato e molto noir, fuori casa, per la precisione al Macro di Roma, è arrivato per una conferenza, con battage in prima pagina (e frenetici festeggiamenti in web), lo scienziato giapponese Hiroshi Ishiguro, il quale ha presentato un androide costruito a sua immagine, una specie di clone. Che a me, lo confesso, più che un essere simil-umano ha ricordato i pupazzi che dialogavano coi ventriloqui di una volta. Non voglio dire che non somigliasse al suo creatore, o brevettatore. Aveva le stesse fattezze, le stesse proporzioni, la stessa “pelle” pallida, le stesse mani lunghe… ma tutto quello che ha fatto, rimanendo sempre seduto, è stato annunciare – muovendo educatamente le labbruzze e ogni tanto dando un mezzo colpo di palpebre – che la conferenza l’avrebbe tenuta il professor Ishiguro, rimasto in piedi alle sue spalle, perché lui era solo un androide. Anche la voce era più o meno quella dello scienziato.
Ishiguro ha sostenuto che in un futuro molto prossimo non potremo fare a meno degli androidi per almeno le seguenti funzioni (per ora):
- sollevamento e scaffalatura di grossi pesi (e sollevazione dall’incarico, si deduce, di tutti i magazzinieri rompiscatole di questo mondo);
- insegnamento delle lingue: molte persone, pur conoscendo bene una lingua, sono timidi e si vergognano di parlarla a un vero essere umano, mentre davanti a un insegnante-robot la timidezza sparisce;
- funzioni di commessa/commesso: parlando con un androide il cliente, pure lui timidissimo, si sente più libero di non comprare.
Oltre a immagini di queste situazioni il professor Ishiguro ha mostrato una classe di piccoli alunni che, stando abbracciati a un primordiale androidino come a un orsacchiotto, riuscivano a seguire la maestra con molta più attenzione che se lasciati a se stessi. Sarà. A me è sembrato che stessero immersi, i piccoli, in deliziosi sonnellini, ma forse era solo un’impressione. Non è un’impressione, invece, che al professor Ishiguro, e a chissà a quanti altri scienziati suoi simili, interessi soprattutto l’apertura di un nuovo ricco mercato. Politicamente scellerato come al solito, bisognerebbe aggiungere. Nell’ultima parte della sua conferenza il professor Ishiguro ha accennato al futuro: noi vogliamo, ha detto, che gli androidi abbiano sentimenti simili ai nostri. Ma perché mai, dico io, per quale dannata ragione dovremmo volere una cosa tanto stupida? Forse per complicare ulteriormente un mondo già alienato in misura terrorizzante? O forse solo per rendere più appetibile l’oggetto da vendere?
Ad ogni modo, vista la pochezza del “clone” di Ishiguro, si può dire che per ora siamo molto lontani da un Westworld coi suoi androidi perfettamente evoluti e affascinanti. Una volta di più la “realtà” si è mostrata fin troppo racchia e meschina di fronte alle meraviglie della finzione, e l’incontro tra i creatori Robert Ford/Hopkins e Hiroshi Ishiguro si è concluso con la schiacciante e assai soddisfacente vittoria del primo.