Il razzismo è un mostro a mille teste, e un film apparentemente lontano dalla nostra realtà come Green Book, che ce ne fa scoprire – e temere – lati nascosti e insospettabili, meriterebbe anche solo per questo la massima attenzione. 

Trattato nell’insieme con una certa superciliosità (“carino” per alcuni, bruttissimo per altri – forse perché per una volta si esce dal cinema con niente di rotto?…), Green Book è, oltre che un racconto sul razzismo, la storia di un’amicizia, un road movie, infine una biografia musicale che non pretende di tracciare un arco di vita ma, con una scelta drammaticamente sempre saggia, si limita a raccontare un momento  nella carriera del pianista e compositore jazz Don Shirley.  

Viggo Mortensen, attore di grande tempra e insieme finissimo, qui degno più che mai dei massimi riconoscimenti, ha fatto quasi scempio della sua bellezza ingrassando una ventina di chili (sempre meno, comunque, di Christian Bale-Dick Cheney) per entrare nella parte di Tony Vallelonga, un italo-americano che fa l’uomo d’ordine in un locale notturno di New York. Rimasto senza lavoro, accetta l’offerta di fare da autista e guardia del corpo di un sofisticato musicista nero, Don Shirley, che ha deciso di partire in tournée per una serie di concerti negli Stati del profondo Sud, dove, scopriremo via via, vige il più duro segregazionismo (siamo nel 1962). 

Viggo Mortensen e Mahershala Ali in una scena del film Green Book (2018)

 

Tony non accetta a cuor leggero. Si ritrova, lui bianco,  a fare da servitore a una “mulignana”, come viene normalmente appellato un nero dagli italo-americani, bravi razzisti anche loro. Al primo incontro passa da un momento di stupore all’altro: Shirley abita sopra la Carnegie Hall (dove lui, smarritosi, entra per la prima volta) e lo riceve in un lussuoso appartamento dominato dal pianoforte a coda, vestito “da principe africano” e stando seduto come in trono (è chiaro che questa mise en scène è al servizio del suo personaggio pubblico, ma in certo qual modo gli corrisponde). Prima della partenza, il bassista del trio (che è russo: Shirley viene dal conservatorio di Leningrado) spiega a Toni che, in quanto prestigioso pianista di successo, Shirley potrebbe starsene tranquillamente a New York a dare concerti per i ricconi di Park Avenue, ma che invece vuole sfidare i pregiudizi del vecchio Sud con tutto l’orgoglio del nero emancipato – ben più emancipato di quelli che incontrerà…

In effetti lo spettatore farà la sorprendente scoperta di diversi ambienti di ricchi più o meno cafoni che patrocinano le fine arts e sfoggiano il solista famoso con i loro ospiti: oltre che nei teatri, Shirley si esibisce infatti nelle magioni private, ed è proprio qui, mentre si scende verso luoghi che la cronaca ha reso tristemente celebri (Little Rock, Birmingham…)  che le abitudini dei padroni di casa segregazionisti, i biechi bianchi, si fanno eclatanti: finché uno di loro cerca di imporre al “negro”, al posto del bagno padronale, un lurido casottino esterno nel retro della villa, evidentemente la latrina destinata ai servi- un secolo dopo l’abolizione della schiavitù.

Shirley è un virtuoso del jazz più sofisticato e complesso, quello degli inizi anni Sessanta che tendeva alla musica classica (un altro esempio celebre era il Modern Jazz Quartet). Lui padroneggiava Chopin e Schubert ma, ci fa scoprire il film, per il tradizionalismo delle accademie, del pubblico e dell’industria discografica, un pianista classico nero all’epoca era men che accettabile. Proprio il suo stupendo virtuosismo è però la scintilla che trasforma dal primo momento in istantanea ammirazione l’atteggiamento sospettoso e scorbutico dell’italo-americano. Questa felice intuizione del racconto diventa la base del progredire dell’amicizia fra i due, nonché dell’emancipazione di Toni. Il quale non mostrerà alcuna sorpresa o moralismo quando dovrà soccorrere il suo capo sorpreso in un incontro gay con un bianco. L’arresto, inevitabile, è una goduria per lo sceriffo del luogo e i suoi, ma in seguito all’unica telefonata che gli spetta Shirley viene liberato per ordine del governatore. Toni è strabiliato, Shirley umiliato: ha dovuto ricorrere alla sua amicizia con il ministro della giustizia Robert Kennedy. Nel dialogo che segue Toni dice di sentirsi il “più nero” dei due, Don il più solo: la ricchezza lo allontana dalla sua razza, l’omosessualità lo isola da tutti. Verso il finale il film dà un altro esempio della spaventosa ipocrisia razzista: a Don viene impedito di cenare nel club “bianco” nel quale è in procinto di esibirsi. L’indirizzo non era evidentemente incluso nel Green Book , la guida che segnalava motel e ristoranti degli Stati del Sud dove i viaggiatori neri erano accettati.

Il regista Peter Farrelly lo conoscevamo in coppia col fratello Bobby per alcune commedie simpatiche parecchio scorreggione, cosa che per noi italiani era tutt’altro che una rarità o prelibatezza. Guadagna molto nel cambio di registro. Insieme al figlio di Toni Vallelonga e a Brian Hayes Curry, ha scritto la bella sceneggiatura, basata su interviste ai due protagonisti e lettere di Toni alla moglie; il suo film, sempre in equilibrio fra le diverse tonalità della commedia drammatica, è ricco di humour e tensione, osservazioni felici, simpatia e calore per i personaggi. E un altro merito è la scelta del cast, perfetto nelle parti minori e nella coppia di protagonisti. Insieme al già citato Viggo Mortensen, rimarrà memorabile Mahershala Ali, un attore visto da anni nelle parti più diverse, che qui coglie magnificamente, senza gigionismi, la grande occasione. 

Torno brevemente, prima di chiudere, al bio-pic musicale, per segnalare agli appassionati due film trascurati, uno notevole, l’altro splendido. Il genere è sempre attraente, tornato di moda col successone di Bohemian Rapsody, ma molto spesso, fin dai vecchi tempi, praticato in modo insoddisfacente quando non disastroso (Rapsody in Blue, dedicato a George Gershwin, Night and Day, su Cole Porter, Words and Music, sulla coppia Rodgers&Hart: ovvero, i grandi dell’american song-book conciati per le feste); mentre non erano male, più di recente, Ray (Charles) e The Rose, ispirato a Janis Joplin.

Jessica Lange in una scena del film Sweet Dreams (1985)

 

Ma i titoli che volevo segnalare sono il godibilissimo Great balls of fire, sul rocker Jerry Lee Lewis, e Sweet Dreams, capolavoro di Karel Reisz  sulla cantante country Patsy Cline, meravigliosamente impersonata da Jessica Lange. Cadono invece nella categoria Non vedo l’ora di perdermelo il minacciato film sulla sublime Judy Garland, nei cui panni dovrebbe vedersi Renée Zellweger (!); e quello su Céline Dion, che col suo yodel canadese ha appestato due generazioni di cantanti, ormai incapaci di emettere la voce se non come lei. Cioè come se stessero sempre assistendo all’affondamento del Titanic.

 

Judy Garland

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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