In un’intervista allo sceneggiatore Dustin Lance Black, premiato con l’Oscar nel 2008 per Milk (3.1.17, La Repubblica), ho letto un’affermazione che mi ha fatto sobbalzare: “L’omosessualità non ha a che fare col sesso, ma con l’amore”. Mi permetto di isolare questa frase dal contesto solo perché il resto dell’intervista era una normale presentazione di When we rise, una nuova serie tv sulle storiche battaglie civili per i diritti dei gay. Ora, Milk era un film molto notevole, e serio, quindi tu immagini che il premiato sceneggiatore sia una persona seria. In effetti nel corso dell’intervista dice, o ricorda, anche delle cose più che corrette, per esempio “bisogna lavorare per proteggere i diritti” (ovvero non cessare mai di sorvegliare e lottare, ognuno almeno nel suo campo d’azione: uno degli insegnamenti base del marxismo, in effetti). Ma quell’affermazione, cui è fin troppo facile rispondere che se si chiama omosessualità (o eterosessualità) non può non riguardare il sesso, mi sembra terribilmente in armonia con la tendenza contemporanea all’edulcorazione di ogni cosa. Ecco qua addirittura la cancellazione del sesso, del desiderio primario, nel nome esclusivo dell’Amore. Sembra di essere in una canzonetta di bassa presa, in un bel quadretto a pastello con le margheritine e tanti cuoricini rossi che dondolano in aria.
Le tonnellate di melassa e zucchero che ci si riversano addosso ogni giorno stanno facendo di molti di noi degli esseri perfettamente canditi. E obbedienti e super-conformisti. E creduloni ai limiti del bigottismo (che, attenzione, fa sempre rima con fascismo): ormai viene dato per certo e addirittura scontato che esista un aldilà, e che in questo aldilà nell’alto dei cieli ci riuniremo coi nostri cari. Ci sono figlie e figli che sostengono pubblicamente di parlare ogni giorno col papà o la mammina guardando l’azzuro infinito o le stelle. Più il mondo diventa egoista e feroce, più trionfano i monili con i cuori d’oro e d’argento e le persone non fanno che sbaciucchiarsi. Il bisogno ormai imperativo di edulcorare e ingraziosire (in primis, per vendere i prodotti) va a braccetto con la sfacciataggine compensatoria e demente di parlare perpetuamente di cibi e “insegnare” a cucinare in tutte le tv, dalle altolocate a quelle di basso rango, in un mondo in gran parte sempre più affamato. E guai a non soffermarsi su quanto siano squisite e preziose le lenticchie o le lattughe del piccolo podere di Emma Clotilde Lapòssino. È il ripudio della realtà, la puerilizzazione di massa. Sembra quasi un disegno dall’alto per una società artificialmente appagata, un regno del conformismo e del Prozac come Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley (1932 – scrittore, nella foto a inizio articolo).
Al cinema sappiamo quanto la situazione sia penosa: da anni i film per bambini sono film per tutti, i quarantenni e cinquantenni si beano delle imprese dell’Uomo Ragno e altri innumerevoli e stucchevoli super-eroi Marvel o di saghe fantasy alquanto prolisse, nelle confortevoli sale dei multiplex – dove, è giusto ricordare, si proiettano solo block-busters, ovvero film americani (o al massimo di produzione anglo-americana). Ogni tanto, fra tutta la melassa delle animazioni, capita davvero un capolavoro come WALL-E (2008), ma è un caso del tutto speciale, un film pessimista, cupo e durissimo sulla distruzione del nostro pianeta e una società di transfughi che a bordo di un’astronave ruotano senza meta nello spazio, ancora tutti consumisti, tutti obesi, tutti su ruote. Altro che film per bambini. Però la tendenza è quella contraria, far sì che i bambini restino più a lungo possibile bambini e al massimo adolescenti, coccolati, viziati, e al cinema rimbambiti con ogni tipo di leziosaggini. Il problema non è tanto la qualità del singolo prodotto ma la quantità di prodotto: ogni settimana c’è almeno una nuova animazione in sala. E tutte le storie, tutti gli animalucci, tutti i pupazzi sono molto graziosi – e molto buoni perfino quando dicono di se stessi Cattivissimo Me…
Queste riflessioni più o meno scontate sono tornate a galla di recente, ripensando ad alcuni dei film usciti negli ultimi mesi. Dopo il giulebbe e la scipitaggine di tanti titoli, il realismo di Io, Daniel Blake di Ken Loach e de La ragazza senza nome dei fratelli Dardenne è stato un vero balsamo, una cura dell’anima. Si tratta naturalmente del realismo come lo sanno praticare i grandi maestri, cioè coinvolgendoti a livello intellettuale ed emozionale, commuovendoti nel senso più profondo, mettendo in campo dei personaggi che entrano a far parte della tua vita. (Non so ben spiegarmi la freddezza con cui è stato accolto il film dei Dardenne, non solo dalla critica italiana: è comunque cinema di altissimo livello, e per me già basterebbe l’aver costruito una vicenda sul senso di responsabilità e l’assunzione di responsabilità, tema cruciale pochissimo frequentato, dandogli il corpo di un’attrice, Adèle Haenel, che è straordinaria nel raffigurare una giovane donna chiusa in se stessa, caparbia, generosa, coraggiosa.)
Finalmente due film umanisti, due film che parlano con amore e con intelligenza dell’essere umano, della condizione umana nel mondo di oggi, mi sono detto. Sarà perché ero ancora sotto quell’influsso che il lodatissimo Dr. Strange , “il miglior neurochirurgo del mondo”, a me è sembrato solo un cretino che traccia segni esoterici per aria e poi si mette un mantello di velluto scarlatto e va in giro a pavoneggiarsi come per una sfilata di moda maschile a Palazzo Pitti. Non che sia personalmente contrario al fantastico, ma ce n’è davvero una colpevole sovrabbondanza, come dei film per bambini. Inoltre c’è il fantastico che davvero trasmette il senso del fiabesco e del meraviglioso, come Harry Potter (soprattutto alcuni episodi, per esempio quello diretto da Alfonso Cuaron) e come Il racconto dei racconti di Matteo Garrone; e poi c’è il fantastico solo puerile, meccanicamente ripetitivo per mancanza di autentica fantasia. Nei casi, tipo Dr. Strange, in cui questi film sfoggino anche delle pretese filosofiche (succede spessissimo) l’irritazione è massima e si esce dal cinema veramente scocciati: alla noia si è aggiunta la beffa, l’imbrogliuccio fatto apposta per il nostro tempo da analfabeti. Per avere la conferma di quanto tante produzioni e tanti registi del genere fantastico-avventuroso si prendano sul serio è bastato correre subito dopo a vedere il nuovo film di Tim Burton, Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali, dove davvero è all’opera il genio dell’immaginazione, tutto è leggerezza e trionfa il senso del gioco, il piacere continuo delle sorprese visive esilaranti. E per una volta si ha voglia di chiedere il bis.