Oh la la la, c’est magnifique! diceva una celebre canzone di Cole Porter, che insieme a I love Paris e altre meraviglie nonché all’unico can-can che mai sia stato degno di quello di Offenbach, faceva parte del prodigioso score di Can-Can , portato da Boadway sullo schermo nel 1960 con un grande cast, Frank Sinatra, Shirley MacLaine, Louis Jourdan, Maurice Chevalier, grandi mezzi e grande gusto. (Questo gioiello Cole Porter lo scrisse fra dolori indicibili dopo la sesta o settima operazione a una gamba, spappolata per un incidente a cavallo alcuni anni prima: una creatività inarrestabile.)

Can-Can (1960) di Walter Lang

Oh la la la, c’est magnifique sembra ora la parola d’ordine mondiale (ahimè non così scherzosa e sofisticata) di fronte a La La Land, titolo azzeccatissimo di un film piacevole ma non certo magnifico. L’entusiasmo globalizzato è quel che impensierisce di più: appena il film è apparso alla Mostra di Venezia e negli stessi gioni al festival di Toronto si è generato un isterismo collettivo degno di miglior oggetto: segno che l’ufficio stampa della produzione ha fatto alla perfezione il suo mestiere, e segno anche del solito fatto (doverlo ribadire è ormai anche noioso) che nessuno si ricorda o ha mai visto nulla, membri dell’Academy e critici militanti compresi. Perché se si conosce il musical e la sua epoca d’oro, che va all’incirca dai primi anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta (poi ci sono ancora capolavori, ma si rarefanno sempre più), l’entusiasmo questa volta sembra proprio fuori luogo. A costo di sembrare irrimediabilmente rétro e babbionico, cercherò di spiegare brevemente il mio punto di vista cominciando proprio dalla musica, cioè dall’elemento essenziale del genere.

Le canzoni dei film di Fred Astaire e Ginger Rogers venivano scritte da signori che, oltre al citato Cole Porter, rispondevano ai nomi di George Gershwyn, Irving Berlin, Jerome Kern. Si costituì così in breve tempo un tesoro che ha poi fatto la gioia di jazzisti e grandi cantanti (e nostra) per altri cinquant’anni, o meglio fino ad oggi, se si considerano le belle versioni (pardon, cover) di Rod Stewart. L’altro genio di quel periodo, Richard Rodgers, dopo aver firmato le musiche del film prototipo, Love me tonight (1932), continuò per decenni a mietere successi, tutti portati sullo schermo, da Oklahoma a Tutti insieme appassionatamente. E un musicista come Leonard Bernstein, molto prima di West Side Story, fornisce lo score del primo musical girato in esterni, Un giorno a New York (1949) …

Gigi (1958) di Vincente Minnelli

Si potrebbe continuare citando decine e decine di titoli di stupende canzoni scritte appositamente o riprese dai film (come in Cantando sotto la pioggia). Ad ogni modo l’epoca d’oro del musical cinematografico grosso modo si conclude con un capolavoro di Vincente Minnelli, Gigi (1958), scritto direttamente per il cinema e coronato da nove Oscar, fra cui quello per la canzone del titolo, dovuta come tutta la bellissima partitura a Alan Jay Lerner e Frederic Lowe, già autori dell’incantevole My Fair Lady. Nei decenni successivi comunque tutto il mondo ha cantato o canticchiato “Maria”, “Life is a Cabaret”, “New York New York”, “Aquarius” eccetera. Tutte canzoni di ampio respiro, con frasi lunghe e melodie orecchiabili ma non banali. E purtroppo è proprio il fiato corto il limite del tema principale in La La Land. Una frase di sei note variata e ripetuta all’infinito in tutte le salse. Non che sia una novità, i musicisti di oggi sembrano incapaci di andare al di là del primo piccolo, e per loro evidentemente supremo, sforzo: quando hanno messo insieme un accenno di motivetto gli sembra di aver raggiunto altezze mozartiane e vanno a dormire il sonno del giusto. Buonanotte, è il caso di dirgli.  Quanto all’altro elemento essenziale, le coreografie, non sarebbe giusto infierire citando i grandi del passato anche recente, come Bob Fosse: il cinema americano è troppo ricco di sensazionali invenzioni visive proprio in questo campo (spesso tutt’uno con sublimi scenografie), basti dire che il musical è il genere che fin dall’inizio ha permesso la maggiore sperimentazione e libertà creativa (dice nulla il nome di Busby Berkeley?) Qui le coreografie sono appena decenti: insulsa, nonostante la spettacolarità del set d’autostrada, quella iniziale, graziosa quella a due che dà l’immagine del film, largamente sprecata quella della festa hollywoodiana, di nuovo graziosina quella del classico sogno (con una bella idea ripresa pari pari da Everyone says I love you di Woody Allen, dove il ballo di Goldie Hawn sul quai della Senna diventava miracolosamente un volo in aria).

La sceneggiatura non aiuta. Sarà anche vero che nei musical “la storia non conta”, ma qualche gag, qualcosa di spiritoso, che apparterrebbe proprio al genere, non avrebbe guastato. Invece è tutto maledettamente romantico, e per creare qualche suspense nel rapporto fra i due amorosi, tipo appuntamento mancato, si dimentica distrattamente l’esistenza dei cellulari (tranne ritirarli fuori quando servono); oppure si creano delle situazioni ridicolmente fasulle: nel club dove Lui lavora come pianista il boss cattivo e cocciuto lo costringe a suonare solo delle specie di saltarelli o polke rivisitate, chissà perché, vista l’eleganza del luogo e del pubblico. Forse è un boss che desidera fallire al più presto.

Cabaret (1972) di Bob Fosse

Alla fine la cosa migliore è Ryan Gosling, che ha una voce abbastanza personale, un certo charme e grande plausibilità alla tastiera. Nessuno potrà mai dire che si è scoperto un nuovo interprete di musical, ma insomma, è carino e tanto basta. La Coppa Volpi a Emma Stone invece devo ancora capirla.

Il vero discorso da affrontare sarebbe in realtà quello sul tono: ovvero se sia possibile l’astrazione fantastica del musical in un cinema come quello contemporaneo che, tranne ovviamente nell’horror e nel fantasy, è così miseramente legato al naturalismo, alla plausibilità, al gusto e alle convenienze piccolo-borghesi. Ma andremmo troppo lontano, per essere partiti da uno spunto tanto piccolo. La La Land è un film che si vedrebbe in uno stato d’animo molto più lieto se non ci avessero bombardato con pubblicità e parole d’ordine e slogan da brodo di giuggiole, con il recente sovraccarico di 14 candidature ai premi Oscar. Ma vero è che quando Hollywood si incapriccia di un suo musical lo ricopre d’oro. È successo con molte ragioni in passato e succederà comunque anche quest’anno. Sarà solo una questione di numero.

 

 

 

 

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