Olivia Colman in una scena de La Favorita (2018)

La Favorita è un film piuttosto godibile e divertente, come sempre quando ci sono dei duelli di dame ben scritti (chissà perché nell’attuale Maria Stuarda, che non vedrò, non si sono attenuti al dramma di Friedrich Schiller, dove c’è un incontro elettrico, mai avvenuto nella realtà, fra la Stuarda e Elisabella I); e quando fa una sua parte il veleno (gli avvelenamenti de Il filo nascosto erano ben altra cosa, qui siamo semplicemente in un’accreditata tradizione). E le attrici sono di prim’ordine. Che Olivia Colman, la Regina Anna, fosse grande lo avevamo visto di recente nella parte della poliziotta in The night manager, la miniserie BBC di John Le Carré e Susanne Bier. Rachel Weisz, la duchessa di Marlborough, è affascinante come sempre, e anche Emma Stone ha diversi buoni momenti. Per di più la messa in scena, nel senso di produzione, si vale di ambienti magnifici e bei costumi. Eppure qualcosa non va. Perché quanto alla messa in scena intesa come linguaggio, come visione, siamo di fronte a uno dei risultati più irritanti degli ultimi tempi. 

Il fatto è che il regista greco Lanthimos, assai coccolato da una certa cinefilia, gira una buona metà del film, o quasi, servendosi di un obbiettivo che era stato abbandonato nel generale vituperio verso la fine degli anni Sessanta, inizio Settanta, il fish-eye. Che ha il vantaggio di coprire i 180 gradi, ma l’orribile svantaggio di deformare l’immagine gonfiandola al centro e stondandola ai lati. Un attrezzo di comodo, una porcheria che si è usata solo perché c’era, come altri infiniti oggetti e ritrovati. Peraltro non ricordo un solo regista degno che vi abbia fatto ricorso. Ahimé, quando io mi sono trovato, quasi all’inizio di questo film, di fronte a un’inquadratura fatta col fish-eye, sono sobbalzato, e devo anche aver cacciato una specie di urlo, perché l’amica che era con me mi ha pregato-intimato di calmarmi. Aveva ragione, la platea della versione originale a Roma era colma e concentrata fino alla compunzione. Purtroppo io avrei volentieri continuato a dar voce alla mia costernazione, perché, ripeto, il Lanthimos non si fa riguardo di grandangolare-deformare a più non posso. Evidentemente è una specie di anfibio, un regista-pesce con occhi indipendenti, come i pesci, e può guardare sia dritto che in versione semisferica. 

Christian Bale (2012)

I peccati di Vice, in confronto, sono del tutto veniali. Vice è un film sul potere della Hollywood liberale, serio, molto ben fatto. E direi anche dovuto, visto che Dick Cheney, il Vice Presidente del titolo, è responsabile (o uno dei maggiori responsabili) del nostro attuale modo di vivere: non solo cioè di tragedie spaventose come quella dell’Iraq e della nascita dell’Isis, ma della restrizione dei diritti civili di tutti noi in tutto il mondo in seguito all’attentato del 12 settembre 2001. In quel momento Cheney era il vice del presidente George W. Bush, e con una serie di interpretazioni distorte della Costituzione, sottigliezze e cavilli giuridici (la cd unitary executive theory) era riuscito ad avocare all’esecutivo una serie di poteri attribuiti fino ad allora al Congresso. Il film parte dalla riunione d’emergenza in seguito all’attentato alle Torri Gemelle presieduta da Cheney (Bush era stato “portato in salvo”, e comunque delegava volentieri le decisioni difficili) in cui si decide la guerra senza regole, torture comprese, a ogni sospettato di terrorismo; e racconta tutta la carriera di questo politicante, dipinto  come un uomo da niente che si trasforma in perfetto servo del potere – sempre dalla parte dei petrolieri, Una volta entrato alla Casa Bianca come “intern” e spalla del consigliere economico di Nixon, Donald Runsfeld (un altro onest’uomo),  il repubblicano Cheney vi rimane con vari incarichi sempre più prestigiosi e delicati accanto a Ford, Reagan, Bush padre durante la Guerra del Golfo. Ne esce solo durante la presidenza Clinton, ma si rifà alla grande divenendo CEO  della Halliburton, una delle maggiori compagnie petrolifere del mondo. 

Christian Bale in una scena di Vice (2018)

Ricordiamo tutti l’invasione dell’Iraq, per giustificare la quale la presidenza Bush (+ Cheney) inventò di sana pianta le prove di armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein. Ciò avvenne con la complicità del primo ministro inglese Blair (ma di nessun altro governo europeo), e quando la verità venne a galla lo scandalo e l’orrore furono enormi. Su questo episodio cruciale, proprio verso la fine, il film diventa un po’ sbrigativo (il turpe Blair, il quale va ancora in giro per il mondo a far conferenze pagato come una star, si intravede appena in un filmato di repertorio), diventa frettoloso, e allo stesso tempo perde una decina di minuti per raccontarci il trapianto del cuore operato su Cheney, forse nel tentativo di creare una qualche suspense. Ora, dato che il film ha dipinto Cheney per due ore come un verme, la riuscita di questo trapianto più che suspense desta rimpianto. 

Christian Bale (2018)

In compenso Christian Bale è grandioso nel rendere fisicamente (un ingrassamento degno del De Niro di Toro Scatenato) la laidezza dell’uomo, il suo grigiore proprio da eminenza grigia, la sua assenza di sguardo. Degna del resto di quella di Bush, i cui occhi perfettamente vitrei mi colpirono e impaurirono, ricordo, fin dal suo discorso di accettazione della presidenza. In che mani, pensai. E, rabbrividendo, lo penso tuttora ogni giorno, sia come cittadino italiano che come suddito dell’impero americano.

 

 

 

 

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