Due successi di questa fiacca stagione cinematografica, Dunkirk e L’ora più buia, avrebbero potuto essere tagliati e ricuciti insieme con grande vantaggio dello spettatore, sia di quello più o meno ignaro di ciò che accadde nel fatidico maggio del 1940, sia di quello esigente. I due film sono generalmente piaciuti, e immagino sia la terribile forza della Storia che ne ha favorito il successo. Ma si poteva sperare di più, visto che entrambi mettono a fuoco il momento in cui si fece il destino di tutta l’Europa e del mondo occidentale: se Churchill, in una situazione disperata, non avesse avuto il genio di chiamare all’azione – comandare – il popolo inglese; e la conseguente operazione di Dunkirk, denominata Dynamo, fosse fallita, la Gran Bretagna  si sarebbe ritrovata quasi priva di esercito e non avrebbe potuto resistere alla furia nazista (“le grinfie della Gestapo e tutto l’odioso apparato del dominio nazista” nelle parole di Churchill) da sola per ben due anni, fino all’entrata in guerra degli Stati Uniti in seguito all’attacco giapponese di Pearl Harbour (dicembre 1941).

Una scena di Dunkirk

Kenneth Branagh in una scena di Dunkirk

Di Dunkirk mi aveva subito lasciato perplesso la didascalia iniziale: invece di dirci quando e perché siamo lì su quella spiaggia deserta, l’autore lasciava cadere dall’alto sullo schermo, scansionandole lentamente, delle considerazioni sulle ore, i giorni, il tempo, facendo subito trapelare ambizioni poco rassicuranti… Non che ci si dovesse aspettare un film didascalico, per carità, i film di guerra molto raramente hanno avuto la pretesa di documentare o insegnare. Ma è vero che con una ricerca paziente si potrebbe tracciare una “Storia” della II° guerra mondiale, dai prodromi anche lontani al dopo, attraverso il cinema, soprattutto americano e inglese: fronte europeo, fronte nord-africano, fronte del Pacifico sono stati narrati in film innumerevoli, spesso di altissima qualità.

A Dunkirk, al confine fra Belgio e Francia, si era creata una situazione tragica inaudita, in grado di condizionare le sorti dell’intera guerra appena iniziata: più di quattrocentomila soldati, ossia l’intero corpo di spedizione inglese e le migliori armate francesi, intrappolati sulla Manica, e alle loro spalle in avvicinamento i tedeschi che, Panzer-Divisionen in testa, avevano appena schiacciato come cartapesta la linea di difesa francese (l’infaustamente celebre linea Maginot).

 Situazione complessa, certo, anche se riassumibile in una scritta. Comunque, anche senza didascalie, i buoni sceneggiatori sapevano (che seccatura dover rimpiangere così spesso il cinema del passato!) fornire informazioni essenziali senza averne l’aria, perché intanto mandavano avanti l’azione drammatica e la delineazione dei personaggi. Nel film Dunkirk, invece, sulla situazione strategica generale e sulle sue cause lo spettatore continuava a non sapere nulla, e d’altra parte i personaggi parevano ritagliati nel cartoncino. L’impressione era dunque di assistere a una serie estetizzante ed estenuante di carrellate fra terra e mare, e di azioni fra terra mare e cielo continuamente interrotte, in modo da creare artificialmente l’attesa, o suspense – sforzo ridicolo, dato lo scarsissimo interesse che l’autore mostrava di nutrire per i personaggi da lui stesso inventati e messi in scena, e l’inevitabile disinteresse nostro.

Come si fosse arrivati alla situazione di Dunkirk e come fu risolta lo racconta brevemente l’altro film, L’ora più buia. La brevità è spesso un merito, e in effetti, alle prese con un personaggio gigantesco come Winston Churchill, per di più nei giorni cruciali del Maggio 1940, cose da raccontare ce n’erano fin troppe: per esempio la coerenza con le proprie convinzioni di parlamentare democratico (sia pur conservatore, feroce in alcuni casi, ma riformista illuminato in molti altri) espresse contro il nazismo fin dai primi anni Trenta; e ribadite all’inizio della guerra nella storica frase: “Senza vittoria non c’è sopravvivenza”. Il film si concentra sull’enorme responsabilità che Churchill si assunse, come primo ministro, nel rifiutare contro buona parte dello schieramento politico l’appeasement, ossia qualsiasi trattativa diplomatica col dittatore tedesco.

Winston Churchill

Winston Churchill

È vero che Churchill negli anni Venti corteggiò Mussolini, e lo fece per tenerlo nello schieramento occidentale d’Europa, lo stesso della Prima Guerra, a guardia, o contro la Germania – definendolo intanto “un porco” in una lettera alla moglie. Ma fu da subito contro il “cupo abominio nazista”, tanto da dire in seguito che l’Inghilterra avrebbe dovuto agire di sorpresa contro Hitler fin dal ’33. Insomma, su un uomo che è stato uno dei geni assoluti del XX secolo, aristocratico contradditorio, sorprendente, grande stratega di guerra e in seguito di un assetto mondiale che nel bene e nel male è ancora lo stesso, premio Nobel della letteratura nel 1953, fra le pieghe dell’azione si potevano fare note ricchissime. Invece il regista Joe Wright perde tempo in inutili e orribili primi piani dei tasti della macchina da scrivere usata per le comunicazioni del Primo Ministro, e in ripetute carrellate al ralenti su dei comuni passanti londinesi che non hanno niente da fare se non, appunto, passare. Ci si chiede se questi mezzucci siano intesi “alleggerire la materia” o siano invece frutto d’insipienza, o del generale imbarbarimento del linguaggio, inteso ormai perlopiù non come espressione ma come decorazione. Conseguenza, la mancanza di nerbo e vera convinzione porta al fallimento emozionale e spettacolare perfino del momento clou, la lunga colonna di imbarcazioni civili inglesi sulla Manica che, obbedendo all’ordine di Churchill e rischiando la vita, andarono al salvataggio dei connazionali assediati: tutto si risolve in un rapido svolazzo dell’obbiettivo su un centinaio di barche, in senso inverso a quello della rotta.

La signora Miniver

Walter Pidgeon ne La signora Miniver

Si direbbe che questo regista non abbia mai visto un capolavoro che pure, nel suo mestiere e particolarmente in tale frangente, avrebbe dovuto essere materia di attento studio. Parlo del film di William Wyler, in passato celeberrimo, La signora Miniver, che narra a caldo (uscì nel 1942) l’inizio della guerra sul piano privato, in una famiglia della borghesia inglese. Il signor Miniver ha una barca da diporto che tiene sul fiume, vicino a casa. Un giorno parte come per una delle sue normali sortite. Dopo un po’ vediamo dove è andato: ha raggiunto la massa degli altri soccorritori privati. E per dare un’idea dell’imponenza ed eccezionalità della cosa a Wyler basta un totale notturno dall’alto (in bianco e nero): dalla sponda sud del Tamigi si vedono centinaia e centinaia di imbarcazioni d’ogni genere che lentamente prendono la via del mare. Un’inquadratura ferma, spettacolare, piena di pathos, per un esercito silenzioso, segreto, eroico prima ancora dell’azione vera e propria. Altro che svolazzi.

Quanto al protagonista del film attuale, Gary Oldman, non si può negare sia bravo, e si vede che ha studiato bene i documenti sonori e visivi, ma non riesce a sottrarsi all’accademia dell’imitazione, come succede quasi sempre nei casi di messinscena di un personaggio unico e perciò inimitabile. (Ma agli Oscar, vedrete, per osmosi, l’eccezionalità dell’individuo verrà scambiata per eccezionalità della copia). Soprattutto a Oldman manca lo sguardo intenso, luminoso, pericoloso dell’originale. Dono essenziale, invece, di Albert Finney, che impersonò Churchill in un film tv del 2002, The Gathering Storm, e possiede, oltre a un meraviglioso talento, una personalità, o persona, unica.

Gary Oldman ne L'ora più buia

Gary Oldman ne L’ora più buia

Quelle de L’ora più buia, tuttavia, sono pecche quasi di poco conto di fronte all’estetizzazione di una tragedia storica qual è il film su Dunkirk. Un’irritazione ancor più profonda, una ripugnanza sotto l’ammirazione, me lo avevano provocato le fotografie di Sebastião Salgado sulle molte immani tragedie contemporanee, foto riprodotte e esaltate nel film di Wim Wenders, Il sale della terra. Esercitare calligrafismo e virtuosismo sulla miseria, il sangue e la morte degli altri continua a sembrarmi, come testimonianza, non tanto ambiguo quanto turpe. Dunkirk è una ricostruzione, uno spettacolone, dunque la cosa può sembrare meno grave. Eppure quell’atteggiamento “adesso vi faccio vedere io cos’è il cinema”, quelle civetterie post-moderne come lo sfondo della Dunkirk attuale – con tanto di insegne e palazzina di cristallo – in un lungo carrello che segue la fuga dei soldati sotto il fuoco della Wermacht, quelle immagini linde, lustre, quella mancanza di “sangue, fatica, lacrime e sudore” che Churchill aveva previsto per il popolo inglese e che cominciarono su quel pezzo di costa (l’ufficiale Kenneth Branagh col suo bel cappotto azzurro cupo sembra sempre appena uscito dalla sartoria), in altre parole quella mancanza di partecipazione reale, di pathos, che si percepisce nell’operazione di Nolan lascia un vuoto, ed è un vuoto che rende più pessimisti. Una cosa di cui non si può certo ringraziare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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