Guerra con i droni. Ovvero uccidere guardando in primo piano le vittime destinate, ma anche quelle collaterali. Una guerra videogioco, ma con sangue vero, a cui il cinema ha dedicato più di un film come Good Kill di Andrew Niccol e che ora ripropone, con ritmo e senza annoiare, Il diritto di uccidere (Eye in the Sky), diretto dal premio Oscar Gavin Hood e interpretato da Helen Mirren, Aaron Paul e Alan Rickman (scomparso il 14 gennaio, qui alla sua ultima prova), presentato al Festival di Toronto. Un thriller che ti tiene incollato alla sedia e che, allo stesso tempo, apre alle meraviglie della guerra digitale come agli orrori dei conflitti a distanza senza troppa etica.

Protagonista, del film che sarà in sala il 25 agosto con Teodora Film, il coriaceo colonnello inglese Katherine Powell (Mirren), che si ritrova a dirigere a distanza, e tra mille intoppi burocratici, un’operazione contro una cellula terroristica a Nairobi. In campo troviamo così un drone con tanto di letali missili che staziona su Nairobi e ancora altri due straordinari droni: uno a forma di uccello, capace ovviamente di volare sulle zone di guerra come di stazionare su un albero o su un muro, e un altro, a forma di scarabeo, con le stesse caratteristiche, ma che per dimensioni è capace di entrare indisturbato in un appartamento. Dall’altra parte del mondo, in Nevada, c’è invece un giovane ufficiale di nome Steve Watts, ovvero il pilota del drone-armato capace di sferrare l’attacco, mentre nella ‘War Room’ londinese troviamo il colonnello Powell e vertici dell’esercito compreso il ministro della Difesa.



Insomma, come in una serie tv di serie a, sono in molti, e in diversi paesi, a poter vedere il bersaglio: una casa piena di terroristi super-ricercati che stanno allestendo un nuovo attacco. Ma c’è un problema non da poco, una bambina innocente, che sta vendendo il pane vicino all’abitazione-bersaglio, finirebbe probabilmente tra le vittime.

Che fare? Nessun politico a Londra vuole prendersi la responsabilità di una decisione così crudele. È giusto sacrificare una vittima innocente, che si può vedere in primo piano, per salvare forse centinaia di vittime, ma senza volto, di un prossimo attentato terroristico? “I dilemmi che i personaggi del film sono costretti ad affrontare sono reali e non facilmente risolvibili e le riposte che provano a dare sono profondamente umane, permettendo al pubblico una connessione emotiva con quello che accade – dice Gavin Hood – . Come regista cerco sempre di non fare prediche, piuttosto di presentare delle domande in una forma cinematografica tesa e viscerale, che appassioni lo spettatore e al tempo stesso sfidi le sue nozioni di bene e male” .

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